Editoriale: la scuola del fare
In un recente articolo1 il giornalista Orazio Martinetti nota come i termini “fare” e “concretezza” siano divenute parole sciamaniche, dotate di vita propria. In politica esiste un “partito del fare che opera per risolvere i problemi concreti” e che si contrappone al “partito della chiacchiera, la casta di chi si perde in discorsi fumosi”. Questa apologia del fare, continua Martinetti, fa breccia soprattutto tra i “ceti meno acculturati del paese, la gente ‘pratica’ che mal sopporta le élite intellettuali, distanti e spocchiose”. Così si è affermato un pensiero semplice, versione moderna del pensiero unico caro alle dittature, che si esprime con un linguaggio elementare, nega la complessità dei fenomeni e si fa un vanto di ostentare atteggiamenti antiintellettuali. La teoria (la parola) viene in tal modo contrapposta alla pratica (i fatti), con il pernicioso risultato di screditare “la riflessione critica, il pensiero che solleva dubbi e interroga, che smonta le impalcature di questo populismo culturale oggi dilagante”.
Quella descritta da Martinetti è una realtà desolante ancor prima che preoccupante. Desolante anche perché chiama in qualche modo in causa l’istituzione scolastica. Da diversi anni a questa parte i tempi consacrati alla formazione si sono dilatati, le offerte moltiplicate, le possibilità di accesso all’istruzione superiore e alla formazione continua decisamente aumentate. Come spiegare allora questo maggior grado di istruzione e “acculturazione” con la dilagante propensione alla semplificazione e al pragmatismo miope e senza retroterra culturale, che aborrisce il pensiero critico?
La questione è molto complessa; ci limitiamo qui ad interrogarci sulla capacità dell’istituzione scolastica di incidere su questa situazione. Forse anche la scuola si è lasciata troppo sedurre da questo Zeitgeist del fare, del rincorrere obiettivi immediati, stimolare competenze, insegnare a galleggiare senza bussola tra i marosi delle informazioni, relegando in secondo piano il senso profondo di ciò che si insegna agli allievi.
Sebbene la legge le attribuisca il compito di educare la persona alla “scelta consapevole di un proprio ruolo attraverso la trasmissione e la rielaborazione critica e scientificamente corretta degli elementi fondamentali della cultura in una visione pluralistica e storicamente radicata nella realtà del Paese”2, i risultati sembrano confermare che le parole cultura, critico, visione pluralistica, storicamente radicato assomiglino di più a chimere che a ragionevoli ipotesi di lavoro e restino confinate nei testi legislativi e nei preamboli dei programmi scolastici.
Oggi una nuova retorica ama paragonare la scuola ad un cantiere aperto, fucina di attività e dinamismo, proposte e progetti, vero regno della “cultura del work in progress”. L’intento educativo si frammenta e disperde in un affastellarsi di educazioni senza priorità o legami apparenti tra loro: l’educazione alla pace, alla tolleranza, al rispetto dell’ambiente va di pari passo con quella stradale o alimentare; incalzano poi le educazioni fisica, sessuale, alle emozioni e all’affettività, alla cittadinanza democratica, all’uso delle nuove tecnologie, al benessere e alla salute …; tante tessere educative che non compongono un mosaico, ma solo momenti, spesso effimeri, di informazione, sensibilizzazione o prevenzione ai mali prodotti da una società insicura e schizofrenica.
Una concezione della formazione dispensata per moduli, contabilizzata in crediti e debiti, suggerisce l’idea di una merce acquistabile e spendibile, più che di un apprendimento che germoglia, cresce e matura attraverso esperienze culturali e di studio. Il carattere strumentale di questa formazione privilegia un sapere tecnico e utile, misurabile e valutabile con “criteri certi”. Viene così marginalizzata sempre più (e il ridimensionamento orario di certe materie nei curricoli professionali ne è un esempio) la dimensione umanistica e culturale delle discipline di insegnamento, quella che tende all’esercizio del pensiero critico, valorizza il dubbio, coglie i tratti complessi e sfaccettati della realtà e proprio per questo sfugge alla logica del risultato e della quantificazione. Non a caso, qualche anno fa, il pedagogista Norberto Bottani aveva prospettato la fine del modello umanistico di scuola.
Uno dei sintomi di questo declino è l’inarrestabile impoverimento espressivo di tanti giovani. Lo scrittore Alberto Nessi, constatando laconicamente in un breve articolo, che il motto dell’ideologia ufficiale è “fatti e non parole”, invita a lavorare sulla parola “nonostante tutto”, proprio per opporre un argine ai “nuovi barbari … che non parlano più o solo balbettano la lingua della modernità”3. Da tempo docenti e studiosi segnalano allarmati che le competenze linguistiche e lessicali sono in caduta libera. Un imbarbarimento del linguaggio che comporta difficoltà a dire e a capire, incapacità a riflettere, ad argomentare, a mettere in relazione tesi e antitesi. Il trionfo della parcellizzazione del sapere unito all’uso massiccio di messaggi essenziali veicolati da telefonini e chat-line stanno creando un nuovo profilo di allievo e quindi di futuro adulto, mediamente capace di fare, ma fortemente inabilitato a ragionare.
Il linguaggio è uno strumento raffinato del pensiero, peccato volerlo limitare alla formulazione di frasi elementari e funzionali al soddisfacimento di bisogni immediati e piegarlo a quel pensiero semplice grazie al quale trionfa il “partito del fare”.
La Redazione
1 L’apoteosi del ‘fare’ e la sconfitta di
Kant, laRegioneTicino 20.04.2010.
2 Legge della scuola, 1990, art. 2,
cpv.2, a.
3 Il canarino e il minatore, laRegione-
Ticino 12.05.2010.