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Editoriale

Riflessione sull’aperitivo multiculturale svoltasi alla scuola media di Viganello. 

La scuola come «cucina» d’integrazione

Lo scrittore Amin Maalouf sostiene che mai come oggi gli uomini abbiano tante cose in comune, tante conoscenze in comune, tanti riferimenti in comune, tante immagini, tante parole e tanti strumenti condivisi. Eppure tutto ciò spinge gli uni e gli altri ad affermare di più la loro differenza.

Quanto si è assistito nelle cronache politiche degli ultimi tempi sembra dar ragione a Maalouf: la società svizzera sta sperimentando una corsa a marcare le differenze, a tracciare le frontiere fra se stessa e gli altri, come se integrazione volesse dire cancellazione delle origini, eliminazione di sé, omologazione.

Può esistere un’integrazione che sia invece mediazione, rivalutazione delle convergenze rispetto alle diversità? Si può realizzare – in nome di valori universali, di diritti fondamentali dell’uomo – una comunità che viva le differenze culturali come un proprio ingrediente fondamentale?

Forse una simile comunità non si è realizzata, però si può insegnare a costruirla, malgrado la politica, chinata ormai a innalzare gli steccati invece di scavalcarli, malgrado i media, nascosti dietro la falsa convinzione di dar voce alle paure dell’opinione pubblica quando invece contribuiscono a crearle. Si può insegnare perché la cittadinanza non definisce solo uno status giuridico ma anche un progetto di convivenza civile, in cui è necessario riconoscere al sistema educativo un ruolo primordiale. Da qui l’esigenza di creare una ‘scuola della cittadinanza’ in cui, oltre ad apprendere le norme del diritto e i principi di funzionamento dello Stato, imparare a vivere ed esercitare concretamente diritti e doveri.

 

Molte sono le esperienze che le scuole hanno condotto in questi anni, esperienze di inclusione, in nome di quella educazione alla cittadinanza che non chieda reciprocità od omologazione, ma condivisione e rispetto. Tra queste esperienze spicca la proposta della scuola media di Viganello che la sera di venerdì 11 dicembre 2009 ha aperto i suoi corridoi, in un orario e in un’attività inusuali, al mondo che la compone: quattrocentocinquanta allievi, più di sessanta nazionalità rappresentate, quasi settecento partecipanti alla manifestazione promossa congiuntamente dalla direzione, dai docenti, dall’Assemblea degli studenti e da quella dei genitori.

L’idea è semplice: organizzare, durante il periodo dell’avvento, una serata in cui ogni componente della scuola presenti agli altri un aspetto della propria cultura, un elemento della propria identità, mettendolo a disposizione, condividendolo. E quale condivisione migliore dell’atto di mangiare assieme, di spartirsi il cibo? In fondo, niente ha più carattere simbolico, economico e religioso, del nutrimento. Mangiare il cibo degli altri non è fidarsi, non è interiorizzare qualcosa, non è superare gli steccati?

La risposta è stata, come già si può capire dalle cifre, eccezionale e unanime. Gli allievi hanno partecipato – anche fuori dall’orario scolastico – alla realizzazione della serata; i docenti hanno abbandonato la programmazione classica per dedicarsi alla presentazione dei vari paesi; i genitori hanno accettato in massa di cucinare e presentare i piatti tipici delle loro culture, le autorità di Lugano hanno prestato gratuitamente le bancarelle usate al mercato cittadino.

Al centro del lungo corridoio della scuola spiccava un grande mappamondo in legno, creato dagli studenti di corso pratico, in cui erano segnate e illuminate tutte le nazionalità presenti; in faccia il tavolo con le specialità svizzere, dalla fondue alla torta di pane. Tutto attorno un turbinio di bandiere, di colori, di profumi, di cibi dal mondo intero, da mangiare con le mani o con le posate, speziati o azzimi, dolci o salati.

Per chi la scuola la conosce, la sorpresa non è stata la vivacità e la voracità degli allievi, ma la timidezza e lo sguardo un po’ perso di quei genitori per cui la scuola non è un ambiente famigliare, ma suscita, forse nel ricordo della propria infanzia, una sorta di naturale timore referenziale: un mondo di parole e regole spesso sconosciute. E allora non si può negare il valore integrativo di una donna velata che, con gesto gentile, porge un piatto alla signora impellicciata, ricevendone un sorriso. La prossima volta, ne siamo certi, questa stessa donna avrà meno timori nel presentarsi davanti ai docenti, ad uscire dalle frontiere della sua casa, perché avrà il ricordo di una scuola luogo di un momento – spesso solo quello – di condivisione e di serenità.

Un’ultima riflessione. Gli invitati c’erano tutti. O quasi. Mancava la televisione pubblica. Era attesa. Ma non si è presentata. La discussione politica in parlamento si è prolungata troppo. Hanno detto. Intanto hanno perso un’occasione per mostrare un paese diverso, migliore. Chissà forse verranno la prossima volta, quando la scuola sarà protagonista di un atto di violenza o di discriminazione. Così, per non perdere di vista le paure dell’opinione pubblica.

 

M. Binaghi